“Scilipotismo” di Johann Gottlieb Fichte

02.08.2013 09:28

Il comunismo giuridico proibizionista di J. Gottlieb Fichte, ardentemente predicato da Archiagottlieb come scienza dello spirito a carattere antroposofico, poggia su una precisa CONDITIO SINE QUA NON, cioè su una precisa condizione, senza la quale è impossibile vivere della propria creatività, vendendo i propri prodotti, per es., le proprie idee scritte nei propri libri: catturare il maggior numero di compratori. A tal fine occorre generare in essi il bisogno, il quale sarà bianco per i bianchi e nero per i neri, anche se il bianco è il contrario del nero.

 

La CONDITIO SINE QUA NON è quindi la capacità eristica di appianare la contraddizione dando un colpo al cerchio ed uno alla botte tramite il vetusto gioco del bastone e della carota. Ciò è possibile assolutizzando i concetti. La vetusta arte eristica insegna del resto da sempre, fra l’altro, l’assolutizzazione come modo di avere sempre ragione sui nostri simili vissuti come avversari.

 

A me pare che tutta la “filosofia” di J. Gottlieb Fichte sia improntata in definitiva al suo business da pennivendolo, mascherato da idealismo assoluto, e vorrei mostrarlo.

 

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Se provo a immaginare qualcosa di statico e mi rivolgo poi alla fisica con tale immagine di staticità, devo subito ricredermi, dato che vengo a conoscere che gli atomi di ogni cosa sono tutti sempre in elettronico movimento.

 

Così mi accorgo che anche in ogni concetto è impossibile sperimentarvi staticità, dato che tutto ciò che penso lo posso sempre pensare meglio e che, inoltre, tutto si trasforma sia in me che fuori di me. Il concetto di geocentrismo fu per esempio superato da quello di eliocentrismo ed ancora oggi quest’ultimo non è per nulla un concetto assoluto o assolutizzante.

 

Ciò significa che una filosofia statica, fatta di concetti immobili, definiti e finiti, morti insomma, non può esistere, perché la vita del pensare ovviamente non li reggerebbe e li espellerebbe continuamente da sé. Dico “ovviamente” intendendo il pensare come mutante, evolutivo; in caso contrario, cioè procedendo per assoluti, niente muta e l’ovvio non è più tanto ovvio, per cui ha bisogno di essere detto.

 

Ecco infatti che l’idealista assoluto Johann Gottlieb Fichte non può esimersi dal dire l’ovvio: “Nell’ambito di ciò che io chiamo filosofia può entrare nulla di statico, immobile e morto. In essa tutto è azione, movimento e vita” (J. G. Fichte, Lettera privata del gennaio 1800).

 

Se uno parla così, in definitiva è come se dicesse: “Stai attento con me, perché io cambio idea in quanto mi evolvo: io penso,  mi evolvo, cambio idea”. E ciò è lodevole.

 

Però sarebbe meno lodevole se questo modo di evolversi si trasformasse poi, per es., nel cabarettistico slogan “Qui lo dico e qui lo nego”.

 

Dall’iniziale legittimazione della Rivoluzione francese, ghigliottina compresa, e dall’affermazione della necessaria estinzione della “forma-Stato”, Fichte passò ben presto a rappresentare daccapo il suo radicale statalismo in “Der geschlossene Handelsstaat” (“Lo Stato commerciale chiuso”) del 1800, negando così la prima fase “giacobina” del suo pensare.

 

Tale ripensamento radicale così importante di Fichte, facendo a cazzotti con gli stessi suoi princìpi, apparsi nella sua “Dottrina della scienza” (“Wissenschaftslehre”) ebbe un fragoroso effetto comico sui suoi lettori, tanto che Schopenhauer, togliendo l’acca al termine “Wissenschaftslehre”, la chiamò  “Wissenschaftsleere”, che significa “Vuoto della scienza”.

 

Il “Vuoto della scienza” di Fichte è infatti null’altro che “scilipotismo”: puro scilipotismo, di cui Fichte fu massimo pioniere di genuina comicità in quanto filosoficamente giustificata.

 

Oggi quest’ultima impera perfino nella sedicente società antroposofica, che si è fatta recentemente propugnatrice del comunismo giuridico proibizionista di Fichte, predicato ad una massa di persone ignare, che la crede filosofia della libertà!

 

Abbiamo dunque un “primo Fichte”, corrispondente al “qui lo dico” giacobino, sovversivo, e nemico dello Stato, e questa era l’immagine che di lui veniva veicolata negli ambienti conservatori, ed un “secondo Fichte”, quello che, dopo la batosta dell’essere stato allontanato dalla sua cattedra, si reinsedia nell’Università, del tutto riconciliato con lo status quo, predicando la necessità di uno Stato forte e sovrano, commercialmente chiuso e organicisticamente strutturato.

 

Il “secondo Fichte”, nel suo caratteristico “qui lo dico e qui lo nego”, terminava dunque di predicare la necessità di estinguere la “forma-Stato”, e iniziava “scilipotisticamente” a predicarne un’altra, quella della forza sovrana della “forma-Stato”.

 

Per coniugare questa sua svolta teorica con l’immagine presentata prima come “filosofia della trasformazione” e della libertà, per sua vocazione avversa al dogmatismo e all’inerzia, Fichte si appella a Kant, in nome dell’assoluto, consapevole ora che la morale trasformazione assoluta non avrebbe mai potuto darsi (ma non poteva esserne consapevole prima?). Era stato infatti Kant a mostrargli che la condizione di “piena moralità” dell’umanità doveva essere intesa nel suo uso regolativo e che quindi costituiva un obiettivo sempre perfettibile, dunque impossibile da raggiungere in modo compiuto: “per ritenerci moralizzati (moralisti) ci manca ancora molto” [I. Kant, “Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico”, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 38].

 

Per risolvere la sua contraddizione, Fichte si attiene dunque a questa impostazione kantiana, per la quale la moralizzazione dell’umanità deve essere intesa in forma mai conclusa, e sempre “in movimento” secondo la filosofia dell’ovvio, anzi dell’ovvio assolutizzato per cui all’idealista assoluto Fiche ben conviene dire nel 1800: “Nell’ambito di ciò che io chiamo filosofia può entrare nulla di statico, immobile e morto. In essa tutto è azione, movimento e vita” (J. G. Fichte, op. cit.).

 

Tutto allora va a posto: basta assolutizzare la “filosofia della trasformazione” (qualsiasi altra filosofia come compito inesauribile) e mostrarne il “telos” come “carota”, ed il gioco è fatto, dato che in nome di quella filosofia si potrà disporre di qualsiasi “bastone” si voglia in quanto reso necessario in nome della “carota”, anche se la “carota” fosse il contrario del “bastone”.

 

Questo è dunque il punto: il compito inesauribile. Basta dire che il fine della “carota” (“primo Fichte”) non potrà mai dirsi compiuto, e subito apparirà come cosa buona e giusta che lo Stato non potrà mai essere superato (“secondo Fichte”), ancorché l’obiettivo (del “primo Fichte”) resti il renderlo superfluo.

 

In tal modo, sapendo di mentire, si fa apparire che il superamento della “forma-Stato” resta un “fine ultimo”, un ideale assoluto in nome del quale sforzarsi per favorire il perfezionamento dell’umanità lungo il suo cammino di moralizzazione, cioè per favorire l’attuazione di uno “Stato etico” per definizione inattuabile (lo Stato essendo qualcosa di statico e tutt’altro che dinamico, o in movimento o in trasformazione): “Avvicinarsi a questo fine ultimo, ed avvicinarsi in progressione infinita, ciò egli [l’uomo] può e deve farlo. Possiamo definire unione (Vereinigung) questo avvicinarsi a una completa unità ed unanimità di tutti gli individui. Dunque la vera destinazione dell’uomo nella società è un’unione che divenga dal punto di vista dell’interiorità sempre più profonda e dal punto di vista dell’estensione sempre più ampia. Questa unione è però possibile solo mediante un perfezionamento” [J. G. Fichte, “La missione del dotto”, a cura di N. Merker, Fabbri, Milano 2001, p. 34].

 

Con questo tipo di “scilipotismo” del “qui lo dico e qui lo nego”, Fichte riesce a catturare adepti antistatalisti a cui predica la non necessità di vivere nello Stato e contemporaneamente adepti statalisti ai quali predica il contrario sostenendo l’insuperabilità della “forma-Stato”, e motivandola sulla base dell’avanzamento infinito come scopo dell’agire umano nella storia, in coerenza con gli stessi princìpi della sua Wissenschaftslehre, anche se ricadendo nel dogmatismo reso in tal modo necessario. Furbo no? Ma era solo un businessman, esattamente come gli antroposofi di oggi mossi da pensiero debole, anzi quasi morto.

 

L’idealismo assoluto di Fichte si capovolse insomma in dogmatismo assoluto in base e in nome dell’assolutizzazione eristica dei concetti. Ma il pensiero debole potrò sempre dire che “in verità Fichte risolve l’aporia conservando lo sforzo (e dunque la libertà) di moralizzazione e di “toglimento” dello Stato: libertà che se, invece, potesse effettivamente giungere a una determinazione concreta, e dunque al raggiungimento dell’obiettivo in questione, si capovolgerebbe in “inerzia”, in “inazione” e dunque in dogmatismo. Il mantenimento dello Stato pur nella prospettiva asintotica del suo superamento è dunque la conditio sine qua non [il grassetto è mio, e intende sottolineare nell’intercalare delle prediche di Archiagottlieb ai continui riferimenti a questa espressione latina] per tenere vivi la prassi e l’ininterrotto sforzo dell’umanità” (Diego Fusaro, “L’aporia dello Stato in Fichte”).