Pseudologia fantastica del palestrato saccente
15.08.2013 09:17
Chi pensa i contenuti percettivi come NON REALTÀ, e pensa invece come REALTÀ solo le loro forme e movimenti in quanto dati dallo spirito (della forma, del movimento, angeli, arcangeli, cherubini, ecc.) approda ad un monismo che non è monismo in quanto si limita a ridurre uno dei due termini del dualismo all’altro (i due termini del dualismo sono la percezione ed concetto; la prima riguarda i contenuti del mondo; il concetto riguarda il nominalismo che li evoca). Usa in tal modo occhiali che deformano ogni cosa del mondo percepibile, dal contenuto di un libro al contenuto di un bernoccolo.
Questi occhiali deformanti - che fanno apparire realtà NON il contenuto MATERIALE degli oggetti di percezione ma solo il loro IMMATERIALE concetto - non sono indossati in modo arbitrario da qualcuno che di punto in bianco decida di vedere tutto in modo distorto al fine di fare qualcosa di diverso dal solito. Sono il risultato di un vero e proprio contenuto di fede.
Nel caso degli occhiali deformanti di Archiagottlieb si può mostrare come essi siano il risultato della sua fede nella “Dottrina della scienza” di J. Gottlieb Fichte, e soprattutto nell’io, inteso come “primo principio fondamentale in tutto e per tutto incondizionato” (“Fichte Fondamento dell’intera dottrina della scienza”, a cura di Guido Boffi, Parte 1ª: “Principi fondamentali dell’intera dottrina della scienza”, p. 139).
L’io può essere sentito, cioè percepito, come sovrasensibile autopercezione di sé da ogni essere umano, ma non come principio da credere o da accettare a priori. Perché fra tutte le cose del mondo l’io umano è l’unico oggetto di percezione che può essere percepito come cosa in sé. Dal momento in cui lo si trasforma in un principio o in un presupposto da credere a priori, lo si concettualizza, e in tal modo non lo si sperimenta. Voglio chiarire questa importante cosa partendo dal principio “io” di Fichte.
Questo “primo principio” o presupposto assoluto dell’io [absolutes Ich], «struttura apriorica fondamentale caratterizzata costitutivamente da autoposizionalità e il cui originario, infinito porsi ha per contenuto l’essere» (ibid. p. 671) pretende essere “in tutto e per tutto incondizionato” ma è condizionato almeno grammaticalmente da Fichte: «nell’io è posta, infatti, l’“assoluta totalità della realtà”» (ibid.), ma in questo modo il suo essere senza condizioni principia dialetticamente da un condizionale, e precisamente dal “se” della proposizione di partenza: “se A è, allora è A”, a sua volta posta da un imperativo, cioè dal “si ponga”, imperativo del verbo “porre”: “si ponga: se A è, allora è A” (“man setzt: wenn A sei, so sei A”, GRUNDLAGE DER GESAMTEN WISSENSCHAFTLEHERE als Handschrift für seine Zuhörer von Johann Gottlieb Fichte, 257, in “Fichte Fondamento, op. cit. p.142).
Dunque, fino a prova del contrario tutta questa “assoluta totalità della realtà” che Fichte pone imperativamente come incondizionata dialettica, poggia su un “se”, che è l’avverbio di ogni verbo al condizionale!
Questa mia osservazione vuole solo sottolineare che non c’è da stupirsi se questo modo obsoleto di procedere fosse considerato rozzo o “rétro” già dai suoi allievi o dal suo pubblico deluso: “Nel vecchio teatro delle marionette tedesco, a lato dell’imperatore o di un eroe qualsiasi, c’era sempre un pagliaccio (Hanswurst) che ripeteva, alla sua maniera ed esagerando, tutto ciò che diceva o faceva l’eroe: così dietro il grande Kant si ritrova l’autore della Wissenschaftslehre [Dottrina della scienza] o, più esattamente, della Wissenschaftsleere [Vuoto della scienza]” (A. Schopenhauer, “L’arte di insultare”, Adelphi, Milano 1999, p. 64).
Oggi qualcosa del genere potrebbe essere detta della dottrina di Archiagottlieb sul suo concetto di percezione intesa come inganno (Pietro Archiati, “La percezione un inganno da superare”) da lui predicata, fra l’altro, come scienza dello spirito a carattere antroposofico o, peggio ancora, come filosofia di Rudolf Steiner.
Ma la percezione sperimentata non è il concetto di percezione meramente pensato! L’ATTIVITÀ DEL PENSARE SU CUI SI FONDA “LA FILOSOFIA DELLA LIBERTÀ” DI STEINER NON È UN PRESUPPOSTO come quello che esiste nella Wissenschaftslehre: È UN’ESPERIENZA. Se fosse un presupposto sarebbe infatti un PENSIERO (un concetto o un’idea) o un PENSATO (una rappresentazione) e non il PENSARE.
Chi scambia IL PENSARE COL CONCETTO O CON L’IDEA DEL PENSARE finisce, volente o nolente, col trasformare l’antroposofia in una dottrina, e se stesso in un individuo che crede nel pensiero vivente, o eterico, ecc.
Invece non si tratta di presupporre né di credere, ma di osservare e pensare: in una parola, di SPERIMENTARE.
E L’ERRORE DI ARCHIAGOTTLIEB STA PROPRIO NEL CREDERE E NEL PREDICARE POSSIBILE LA CREAZIONE DI UN PENSARE PERFETTO PERCEPIBILE CONTEMPORANEAMENTE AL SUO CREARLO. Ed è proprio così che egli crede di poter fare: “[io] posso creare il concetto di un pensare perfetto che si percepisce e si guarda nel mentre crea!” (Pietro Archiati, 3° seminario sulla filosofia di Steiner, tenuto a Rocca di Papa - Roma - dal 14 al 17 febbraio 2008). MA IL CONCETTO DI TALE PENSARE PERFETTO È UN CONCETTO, UN PRINCIPIO, UN PRESUPPOSTO, UN PENSATO. NON È PENSARE, NON È L’ESPERIENZA DEL PENSARE!
Scrive Steiner: “Finché la filosofia accetterà tutti i possibili principi come atomo, movimento, materia, volontà, inconscio, resterà sospesa in aria” (R. Steiner, “La filosofia della libertà”, cap. 3°, §31°).
La metafisca parte da principi primi o da fondamenti assoluti, deducendone poi il resto. Quindi parte dall’essere per arrivare all’esistere. “La filosofia della libertà” parte invece dal contrario, cioè dall’esistere per arrivare all’essere. Il che non è facile, dato che chi parte dall’essere arriva di solito all'esistere in modo astratto, mentre chi parte dall’esistere perviene in modo astratto all’essere oppure neanche vi perviene, perciò lo nega.
Il processo del creare è l’inverso del processo del conoscere, dato che il processo del CREARE va dall’invisibile al visibile, mentre il processo del CONOSCERE va dal visibile all’invisibile.
Invece Archiagottlieb mischia le cose quando parla di creazione della conoscenza dicendo: “[…] questa creazione della conoscenza umana che congiunge percezione con concetto è una creazione specifica dal nulla dell’essere umano, dello spirito umano […]”. Questa affermazione è una bugia, anzi, è una pseudologia fantastica.
Steiner non ha inventato né creato dal nulla la conoscenza che congiunge percezione e concetto propria del vero monismo antico. L’ha osservata! Osservandola ha scoperto che era ed è giusta, e che in quanto tale era ben diversa da quella del suo tempo, impestata di kantismo oscurantista. La sua è gnoseologia!
Quella di Archiagottlieb è invece pseudologia.
Insomma, se io mi metto concretamente a dipingere devo innanzitutto pensare a quello che voglio dipingere. Poi dipingo, e infine osservo ciò che ho dipinto. Il mio atto creativo ha trasformato una realtà INTELLIGIBILE (da un’IDEA invisibile) in una realtà PERCEPIBILE (in una COSA visibile). L’atto conoscitivo fa invece esattamente il contrario: trasforma una realtà PERCEPIBILE (dai sensi) in una realtà INTELLIGIBILE. Infatti se mentre dipingo voglio osservare quanto ho dipinto devo smettere di dipingere, indietreggiare di qualche passo, e compiere l’osservazione. In altre parole non ho un collo allungabile come quello di Tiramolla o come quello presumibile nel fantastico concetto “razionalizzato” e predicato da Archiagottlieb come “pensiero divino in quanto conseguenza ultima del pensare in quanto ci è percepibile e pensabile dall’uomo” (Pietro Archiati, cit.). Qui vi è solo pseudologia, non gnoseologia.
Non andrebbero confusi i “pensati” (immagini pensate) col pensare (la loro elaborazione). Detto con le parole di Steiner: “Non andrebbe confuso l’avere immagini di pensiero con l’elaborazione di pensieri attraverso il pensare. Immagini di pensiero possono sorgere nell’anima con carattere di sogno, come vaghe suggestioni. Questo non è un PENSARE” (R. Steiner, “La filosofia della libertà”, cap. 3°, Aggiunta alla nuova edizione del 1918, §1°).
Archiagottlieb dovrebbe dunque, prima di predicare misticamente “La filosofia della libertà” imparare ALMENO a distinguere il pensare (“l’elaborazione di pensieri attraverso il pensare”) dal pensiero capriccioso, ludico e vagabondo della propria natura “stenica” (“isterica”) in quanto misticamente istrionica, a volte anche mascherata da quella ruminante, coatta e molesta in quanto “astenica” (“nevrastenica”), che spesso non si accorge nemmeno - nella sua presunta e saccente coscienza divina - di offendere l’intelligenza di chi, ignaro, crede di ascoltare da lui l’antroposofia. Invece egli non solo non riesce a padroneggiare il pensiero senza alterarsi con qualcuno ma arriva perfino a utilizzarlo per “razionalizzare”, cioè per mascherare o occultare i veri motivi delle proprie modalità isteriche o nevrasteniche di predica confusa in quanto sempre fichtiana.
La raccomandazione sopra accennata di Steiner di non confondere “l’avere immagini di pensiero con l’elaborazione di pensieri attraverso il pensare” vale ovviamente per tutti ma vale soprattutto per i presuntuosi che predicano ciò che non andrebbe neanche predicato, o che tutt’al più andrebbe predicato come qualcosa da sperimentare, non da concettualizzare e basta. Ecco perché Steiner parla spesso di esperienza del concetto, intendendo con ciò non l’esperienza di memorizzazione concettuale (nozionismo culturale) o il superficiale monismo negatore della realtà dei contenuti di percezione, bensì del medesimo monismo di Giordano Bruno, fondato - anche se in modo primitivo - sul quello stesso monismo di pensiero che troverà poi massima espressione consapevole nella “Filosofia della libertà” di Steiner, che spaventava e ancora spaventa la chiesa cattolica: “In nessun modo un corpo può agire su un corpo, né la materia sulla materia, né partì della materia e del corpo possono agire su altre parti, ma ogni azione proviene dalla qualità, dalla forma ed in definitiva dall'anima... Chi dunque sarà consapevole di questa indissolubile continuità dell'anima e che essa anima è stretta da una sorta di necessità [necessità ovviamente non ammessa dal fanatismo di J. Gottlieb Fichte, né da quello dei suoi neo-pappagalli - ndc], avrà un principio non incerto sia per operare che per riflettere con maggiore verità attorno alla natura delle cose... L'anima infatti abbandona il suo corpo alla fine della vita, ma non può certo abbandonare il corpo universale, né essere abbandonata da questo; abbandonandone uno semplice e composto, si trasferisce in un altro composto e semplice...” (Giordano Bruno, “De Magia”).
Non vi è sostanziale differenza fra questo monismo di Giordano Bruno e quello di Rudolf Steiner. Il loro è vero monismo. Chi non lo comprende e, ciò nonostante, si pone saccentemente come correttore terminologico delle presunte contraddizioni riscontrate nel monismo di Steiner è proprio Archiagottlieb, che afferma: “Non ho capito come mai (Steiner) non ha notato che c’era questa piccola contraddizione” (Pietro Archiati, “Esistono limiti alla conoscenza?”, Ed. Pensarelibero, p. 282).
Anche questa questione è affrontabile tenendo in considerazione il fatto che l’antroposofia non è né filosofia del sentimento, né filosofia della volontà. Soprattutto non è una filosofia ma sempre un’esperienza. L’antroposofia è una via del pensare, che i sognatori trasformano in una via del sentimento, mentre i “palestrati” in una via della volontà. Quel che è peggio, è che tanto gli uni che gli altri, non potendo sottrarsi al pensiero, sono poi costretti a razionalizzare (spesso in modo saccente) ciò che impone loro la natura personale.
Il palestrato culturista che ama autoesaltarsi mostrandosi lucente nei suoi muscoli, è simile al “palestrato” culturale che ama autoesaltarsi mostrandosi saccente nelle sue “vertigini” concettuali (Cfr. ad esempio anche “Sulla vertigine di Pietro Archiati”) o nel suo abituale presentarsi come consumato dotto e agguerrito: “Ho studiato, a Roma e poi a Monaco, filosofia per dodici semestri e teologia per dieci. Lo vedete dai capelli che ho perso. A quei tempi le lezioni erano tutte in latino, ma noi eravamo ben agguerriti. Quasi tutti i professori erano gesuiti, era la massima scuola gesuita, la Gregoriana di Roma”, ecc. (Pietro Archiati, “Dalla mia vita. La mia esperienza con la Chiesa e l’Antroposofia”, Archiati Verlag, p. 8).
Ma per comprendere a fondo la pseudologia fantastica di questo palestrato saccente, occorre considerare qualcosa di essenziale che riguarda il pensare, il sentire ed il volere: queste tre facoltà «agiscono sempre insieme, ma in un modo che varia al variare dei loro reciproci rapporti. Ognuna di queste facoltà svolge infatti, una volta, un ruolo DOMINANTE e, due volte, un ruolo SUBORDINATO. Mi spiego: quando si parla di “pensare”, si parla in realtà del sentire e del volere NEL pensare; quando si parla del “sentire”, si parla in realtà del pensare e del volere NEL sentire; e quando si parla del “volere”, si parla in realtà del pensare e del sentire NEL volere. Come si vede, ognuna di queste facoltà riveste, in un caso, un ruolo dominante e, negli altri due, un ruolo subordinato. Il pensare è “pensare” non perché non abbia nulla a che fare col sentire e il volere, ma perché li subordina e utilizza per la propria espressione. Il che implica che quando il sentire o il volere, anziché sostenerlo, lo scavalcano e gli s’impongono, il pensare non è più pensare. Che cos’è, del resto, la cosiddetta “pseudologia fantastica” degli isterici o che cos’è un delirio se non una deformazione prodotta appunto, nel pensare, dall’insubordinazione del sentire o del volere?
Ed il pensare di Archiagottlieb, fichtianamente, heideggerianamente, o steinerianamente indirizzato (come se Steiner fosse un filosofo come un altro), soprattutto quando improvvisa su ogni tema possibile dicendo tutto ed il contrario di tutto, assomiglia a quello dell'uomo moderno illustrato da Jung come "pensare indirizzato" ma disattento: l’uomo moderno si abbandona in larga misura al pensare fantastico, che subentra non appena il pensare indirizzato viene a cessare. Un allentamento dell’interesse, una lieve stanchezza sono sufficienti a mettere fine al pensare indirizzato, all’esatto adattamento psicologico al mondo reale, e a sostituirlo con fantasie. Ci allontaniamo dal tema e cediamo il passo al nostro corso di pensieri; se il rilassamento dell’attenzione si fa più forte perdiamo a poco a poco coscienza del presente e la fantasia prende il sopravvento (cfr. Carl Gustav Jung, “Libido, simboli e trasformazione”).
Nella mia pagina “Sul bernoccolo dello spirito”, consistente nell’indirizzo “monistico” di Archiagottlieb, per il quale la percezione è un inganno (Pietro Archiati, “La percezione un inganno da superare”) vi è un esempio di tale pensare un po’ indirizzato e un po’ fantasioso per la serie “un po’ di qui e un po’ di là” del comico Giorgio Panariello, con cui mediante continue e “saccenti” trasformazioni della materia in non materia Archiagottlieb trasforma però anche il monismo in un non monismo. Ecco perché Archiagottlieb crede monismo qualcosa di ben lontano dal monismo. E tutto avviene in base ad un principio creduto, come quello del primo principio di Fichte, bufala che non sta in piedi se non come costruzione di pensieri senza alcun contenuto di esperienza.
Il vero monismo è sintesi di una preparatoria e rigorosa analisi. Quelli che oggi sovente si chiamano monisti - dice Steiner - col loro monismo semplificano davvero le cose. Essi prendono una parte del mondo e ne fanno un’unità, gettando via l’altra parte. Il vero monismo nasce dal fare che le due metà sensatamente si compenetrino. Cosa potrà mai significare per Archiagottlieb il termine «sensatamente» in merito alle dinamiche della percezione qui intese?
Se ci si prova a muovere in una stanza ad occhi chiusi, cosa avviene? Avanziamo protendendo le braccia, e a un certo punto tocchiamo qualcosa. Per il solo fatto di avere toccato qualcosa siamo in grado di formulare il seguente giudizio: "Qui c’è qualcosa". Dunque sappiamo che lì QUALCOSA È, ma non sappiamo ancora QUAL È LA COSA CHE È. In cosa consiste allora l’esperienza fatta? Consiste nel vivo incontro del nostro essere con l’essere della cosa. Tale giudizio, detto da Steiner “giudizio di percezione”, scaturisce in modo immediato dall’impatto tra la forza del soggetto e quella dell’oggetto.
A cosa servono le saccenti esibizioni di Archiagottlieb, cioè tutte le sue rappresentazioni di scienza dello spirito fissate nella memoria come idee morte se non per riesumarle poi all’occorrenza per negare realtà alla percezione?
Ma l’oggetto di percezione c’è, e “l’enunciazione più semplice che posso fare di una cosa è che ‘è’, che esiste” (R. Steiner, “La filosofia della libertà, cap. 3°, §19).
Ciò che più conta è proprio questo, dato che è proprio da questa esperienza che il percepire trae la sua forza probativa. Non si cercano forse dei testimoni oculari? Si vuole vedere con i propri occhi, udire con le proprie orecchie o toccare con le proprie mani. Il percepire è dunque garanzia del mondo REALE, mentre il pensare è garanzia del mondo IDEALE.
Il problema nel monismo di Archiagottlieb consiste nel negare realtà ai contenuti materiali della percezione per affermarla in quelli immateriali dei concetti. È uno stridore tutto suo questo, non di Steiner, che criticava il monismo dei suoi tempi e non quello autentico dei tempi antichi, di Giordano Bruno per esempio.
Invece Archiagottlieb proietta il proprio stridore su Steiner, ponendosi sopra la sua scientificità, addirittura con l’intento di correggerne la terminologia: “C’è una piccola cosa stridente, se volete, una piccola contraddizione - cosa che se Steiner avesse la possibilità di fare una nuova edizione della Filosofia della Libertà, gli direi: correggi ciò che, insomma, crea soltanto problemi. Verso l’inizio del libro, Steiner chiama “monismo” un modo di pensare, una filosofia, che lui non fa sua, che è sbagliata! [… ]e poi, ora, in questo capitolo, “monismo” è la sua teoria! D’accordo?! […] c’è questa discrepanza tra ciò che Steiner chiama “monismo” all’inizio della Filosofia della Libertà e ciò che chiama “monismo” qui, alla fine della prima parte. Sono due cose ben diverse! Però, concedetemi, che è una pura questione di terminologia. Non ho capito come mai (Steiner) non ha notato che c’era questa piccola contraddizione” (Pietro Archiati, “Esistono limiti alla conoscenza?”, Ed. Pensarelibero, pp. 281-282).
Dice bene Archiagottlieb: “Non ho capito”!
Chi si identifica con una concezione filosofica non può capire qualcosa in senso scientifico perché ogni altra concezione la vive come minacciosa. Non perché questa minacci la sua concezione ma perché minaccia la sua identità. E questa è la genesi logodinamica del dogmatismo, del fanatismo e dell’intolleranza che caratterizzano i nemici dell’io e dello spirito scientifico.
Fra filosofia e scienza vi è differenza QUALITATIVA. Archiagottlieb evidentemente non la percepisce, attento com’è a evitare che nel suo sistema vi siano contraddizioni. Somiglia a quei musicisti del solfeggio, attenti ad evitare che nelle loro composizioni vi siano teoriche stonature, non perché le percepiscano ma perché così sta scritto nei manuali di armonia.
Gli scienziati (o i veri musicisti) si aprono invece a tutti quegli stimoli che sono per il filosofo o per l’ideologo solo di disturbo. In loro è attiva una forza che porta il pensare incontro al mondo e alle cose (o al mondo sonoro)! Non si preoccupano di elaborare dei coerenti sistemi concettuali (o giri armonici perfettamente predefiniti o prefissati), ma di penetrare i fenomeni del mondo per scoprire le leggi che li governano.
Archiagottlieb, il tuo “divino” agitarti contro la percezione ha meno valore delle affermazioni del divino Otelma! Il tuo “io”, quale entità spirituale, può incontrare il mondo sensibile solo per mezzo del corpo. Se vuoi vedere una cosa devi servirti degli occhi, se vuoi udirla devi servirti delle orecchie. Negando - introiettando i contenuti delle cose o le cose stesse - la realtà del corpo o della materia, affermi la realtà immateriale dell’io, ma la imprigioni in se stessa… Perciò sei SPINTO A RIMANERE FERMO, COME INCATENATO, CON LA TUA VISIONE DEL MONDO, ALL’INTERNO DELL’ATTIVITÀ DELL’“IO” STESSO (cfr. R. Steiner, “La filosofia della libertà”, cap. 2°, §7°).